Un paese non precisato. Il tempo non è importante, potrebbe essere il futuro, ma anche un recente passato. Una coppia in pericolo aspetta un passaggio per la salvezza. Non sappiamo cos’è successo: una guerra? una catastrofe climatica? L’unica cosa certa è che i protagonisti devono abbandonare la loro casa, la loro terra, i loro affetti. Le loro vite vanno inventate di nuovo, per giungere a un “di là” sconosciuto e diverso.
Abbandono è una drammaturgia scarnificata che descrive una condizione universale: quella di un’umanità sradicata, gettata fuori dalla natura, sola in un pianeta sempre più ostile; che abbandona (o è abbandonata) da una società amorfa e silenziosa.
Questo lavoro, quasi un atto unico, parte da domande semplici e disturbanti: quanto di noi stessi possiamo abbandonare prima di diventare altre persone? Cosa siamo disposti a perdere, e a cosa non possiamo rinunciare? Una relazione duale può salvarsi nello sfacelo di una società? E che cosa significa davvero “salvarsi”?
Note di regìa
Quando ho letto per la prima volta Abbandono eravamo nella seconda fase della pandemia, in quel particolare momento fatto di zone rosse, coprifuoco notturno e visite limitate ai “congiunti”.
Leggendolo ho subito respirato una certa “aria di casa”, non tanto per il tono cupo e post-apocalittico del testo, o per le evidenti citazioni da Beckett a McCarthy, quanto piuttosto per una serie di circostanze descritte in questo spaccato di vita. Una storia “al limite”, distopica, certamente… ma che mi riguardava da vicino, che avevo provato e vissuto in prima persona. Dunque è stata la Vita in primis a indicarmi una possibile visione teatrale di questo breve testo.
Negli stessi giorni stavo studiando per un laboratorio teatrale il mito di Alcesti nelle sue varie riscritture. In particolare la versione contemporanea di Giovanni Raboni, Alcesti o la recita dell’esilio, ritrovandoci in maniera inquietante le stesse atmosfere, le medesime situazioni.
Il caso non agisce mai a caso.
Ho subito pensato che le parole condensate e rarefatte di Iacopo invitassero a introdurre un altro tipo di scrittura teatrale, una scrittura fatta di vuoti, di pause, di silenzi, di sguardi persi, in attesa di un indefinito arrivo di qualcuno, di qualcosa in grado di liberarci da questo angoscioso “al di qua” per condurci in un altro mondo, un più speranzoso “al di là”.
In attesa di lavorare con i corpi e le voci dei due attori, ho iniziato a lavorare con Giacomo Bertoni, il musicista interno a Studio Doiz. Gli ho subito proposto di ascoltare le colonne sonore tratte da alcune serie tv che mi avevano colpito e affascinato anche per il loro uso della musica. Su tutte The Knick e Utopia. Da queste basi Giacomo ha iniziato a comporre un tessuto sonoro che avrebbe rivestito quasi interamente il lavoro.
Ho immaginato una scena scarna, spoglia, senza elementi scenografici evidenti, contraddicendo alcune didascalie del testo originale. Non più un dentro, ma un fuori. Un luogo sospeso, cupo, illuminato solo da lacune barre neon di vecchia generazione, che variano sui colori del blu e del rosso, giocando sullo sfarfallio intermittente e non del tutto prevedibile del loro innesco a bassa tensione.
A terra, in un perimetro delineato dalle luci, la cenere. Ferma immobile. La polvere evocata dal testo, che ha ricoperto l’intero universo costringendo i pochi abitanti rimasti a cercare una soluzione altra, un nuovo luogo da abitare.
Gli attori sono un mistero. Sono arrivati come arrivano le persone nelle nostre vite. Sono degli incontri col destino. Lorenzo Carpinelli è stato subito lui, anzi prima. Uno dei motivi per cui ho deciso di accettare questo ruolo di regista. Volevo lavorare con un attore, io da attore prestato alla regia. Lui è un attore. Malleabile. In ascolto. Ce ne sono pochi. Alice Gera è arrivata, come una luna nuova nel cielo. Mi è apparso il suo viso scarno che conosco da tanti anni a illuminare questa figura. La prima scelta registica è individuare gli attori giusti per la parte. Alice era lo strumento ideale per suonare questo spartito. Non avrei potuto compiere scelta più giusta.
Il finale l’ho cambiato. Non di poco. E di questo ringrazio Iacopo che non è stato geloso del suo testo. Cosa rara. Lui autore, per di più vivente… che peccato! Ho scelto un finale aperto, tronco sospeso, alla Čechov. Un cliffhanger nella terminologia contemporanea. Tanto tragico quanto aperto alle più diverse interpretazioni.
-“ La tragedia è un inganno in cui è più saggio chi si lascia ingannare.”
-“ Non essere nati è la sorte migliore per i mortali…”
– “Non si cerchi una dinamica psicologica. L’azione è tutto, non il carattere…” Aristotele
-“Ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile. Se interviene o diventa possibile una conciliazione, il tragico scompare.”
-“… la constatazione della fondamentale problematicità e conflittualità del reale, e del suo carattere ambiguo, quando non contraddittorio.”
-“Un mistero certo; ma la tragedia fu inventata come simbolo scenico di questo mistero, che in essa viene portato a consapevolezza: non delle sue ragioni, ma del suo esistere.”
-“Il racconto tenta di spiegare l’inspiegabile. Siccome proviene da un fondo di verità, deve terminare nell’inspiegabile” F. Kafka
-“… perché bene e verità sarebbero nulla senza i loro contrari.”
Roberto Magnani
Note di drammaturgia
Ho scritto questo breve testo, di getto, alla fine del 2021, quando ancora il mondo era fermo per la pandemia. L’ho iniziato senza sapere dove mi avrebbe portato. L’unica cosa certa era che doveva parlare di una coppia costretta ad abbandonare la sua città, il suo paese, la sua vita “normale”, per motivi gravi e sconosciuti. Quali potevano essere le conseguenze psicologiche e mentali di questa scelta? Come reagisce una relazione in mezzo allo sfacelo delle cose? Si rafforza o si allenta? Quando siamo davvero in pericolo è la nostra natura ferina, è l’istinto di auto-conservazione ad avere la meglio, o l’amore può sopravvivere?
Adesso, durante le prove, vedo questo testo prendere vita. Distinguo più chiaramente schegge di ispirazione letteraria che mi avevano guidato durante la stesura, mute e inconsapevoli: c’è il teatro di Beckett, l’asciuttezza di Pinter; ci sono le pagine di McCarthy, di Coetzee, della Munro – ma c’è anche qualcosa del mondo sotto attacco descritto da un capolavoro del fumetto mondiale: L’Eternauta, di Héctor Oesterheld.
Capisco che questo frammento disperato è uno specchio della psicologia collettiva. Il senso di fine, la paura del disastro (climatico, sociale, economico…), la convinzione di essere “gli ultimi”, l’insensatezza di ogni speranza o progetto: l’escatologia è forse il segno distintivo di questi decenni.
Iacopo Gardelli
di Iacopo Gardelli
regìa Roberto Magnani
con Lorenzo Carpinelli e Alice Gera
musiche Giacomo Bertoni
grafiche Nicola Varesco
tecnica Andrea Napolitano
una produzione Studio Doiz
con il sostegno di Ravenna Teatro e CISIM
progetto vincitore della borsa teatrale Amici di Anna Pancirolli 2022
un ringraziamento speciale a Ravenna Teatro e a Crexida/ANIMA Fluò per il supporto
Foto di Igor Orizzonte
Sguardi critici
Il dramma dell’Abbandono in scena al Rasi, Giulia Castelli, Ravenna&dintorni, 7-13 settembre 2023
Abbandono di Iacopo Gardelli, tra distopia, paura dell’ignoto e distopia, Intervista a cura di Anna Cavallo su Paginatre.it, 5 settembre 2023